I primi pianti: 4 piccole certezze nel crescere un neonato
A distanza di sette mesi dalla nascita del nostro bambino ho tante domande, poche risposte e alcune certezze. Parlare di certezze riferendosi ai neonati forse è un po’ azzardato, a tratti presuntuoso, diciamo però che con il passare delle settimane, siamo riusciti a fissare qualche punto fermo, dei faretti in mezzo alla nebbia che ci illuminano la strada e che dobbiamo sforzarci di ricordare soprattutto in quei momenti in cui tutto sembra fumoso.
Sottolineando ancora una volta che ogni bambino è unico, così come unica è la relazione che si instaura in ogni coppia mamma-bambino, che generalizzare è sempre una semplificazione e che leggi universali e verità assolute nel mondo dei bambini non esistono, sintetizzo in punti le (mie) 4 piccole certezze, costruite giorno dopo giorno in questi mesi, alla luce della mia esperienza
Quando il bambino piange ha un motivo e sta cercando di comunicarlo
In tutti questi mesi non c’è stato mai un pianto immotivato. Questo non vuol dire che noi lo abbiamo sempre subito compreso, tante volte ci siamo detti: “Uh mamma e adesso che cos’ha?”, ma poi a posteriori ci siamo sempre resi conto che una ragione c’era. A volte era scontata, a volte imprevedibile, a volte chiara ma magari non ai nostri occhi in quel momento, a volte inaspettata. Con il tempo abbiamo capito che la maggior parte delle volte in cui il nostro bambino piangeva era perché era stanco. Può sembrare banale, ma non è così semplice, almeno inizialmente, mettersi nell’ottica di un neonato e comprendere quanto possano essere faticosi gli incontri con le persone, l’esposizione ai suoni, alle luci e ai colori, quanta energia richieda una poppata o un bagnetto. Soprattutto inizialmente, secondo i parametri della nostra mente adulta, il bambino ci sembrava sveglio da troppo poco tempo per poter immaginare che avesse di nuovo sonno, ma col passare delle settimane abbiamo imparato a conoscerlo, a sintonizzarci sui suoi bisogni e a dare risposte più pronte a necessità fino a quel momento lontane dal nostro mondo. Poi è capitato anche, dopo esserci scervellati sui più svariati possibili bisogni, di comprendere che il bambino avesse “semplicemente” fame, essendo passate più di tre ore dall’ultima poppata, senza che ce ne rendessimo conto. Perché essere genitori è così: a volte si arriva dove mai si sarebbe immaginato di poter arrivare, altre volte si può avere la sensazione di perdersi in un bicchiere d’acqua.
E’ risaputo che i bambini piangono in modo diverso a seconda di ciò che vogliono comunicare e in base a ciò di cui hanno bisogno, ma è frequente pensare almeno inizialmente che i pianti dei propri bambini sembrino tutti uguali. Nel marasma del post partum, infatti, spesso non abbiamo la prontezza di fermarci a riflettere, ci facciamo prendere dalle contingenze del momento, dimenticandoci di osservare. A volte è come se ci dimenassimo in mezzo al mare per rimanere a galla, senza pensare che con movimenti più lenti e distesi, riusciremmo a fare più strada con meno fatica. Per fortuna in questo il tempo è nostro alleato e al suo scorrere aumenta la nostra capacità di comprendere i bambini, tanto amati quanto a volte indecifrabili, nei loro gesti, nelle loro espressioni e nei suoi linguaggi.
Seno e ciuccio non sono tappi per chiudere la bocca dei bambini.
A proposito di osservazione, di sintonizzazione sui bisogni, di comprensione questo è un altro aspetto da non dare per scontato. Anche perché sulla carta è tutto facile, ma poi nelle situazioni bisogna trovarsi, verificando che a volte capita di fare cose che sappiamo non si dovrebbero fare. Nella nostra esperienza, avendo la fortuna di allattare, non è mai capitato che si presentassero situazioni che il seno non potesse calmare. Dunque la tentazione è forte: “bimbo piange, tetta fuori”. Lo sforzo che però penso sia giusto fare è quello di ascoltare i propri bambini e dare risposta ai loro bisogni, ricordando che il pianto è una comunicazione e zittirli non è la soluzione. Non sempre è facile, ci sono momenti in cui non si ha la pazienza o la forza di aspettare e quindi si sceglie la via più semplice, giusta o sbagliata che sia. Pensiamo alla notte, per esempio: all’ennesimo risveglio e in debito di sonno, non sempre si ha la lucidità per fare “la cosa giusta”. E allora può capitare, per esempio, dopo aver offerto in dormiveglia il seno ancora una volta, di rendersi conto che il bambino è bagnato e per quello piangeva, ma noi non ce ne eravamo accorti. In questi casi, se tutto va bene si può fare un sorriso e sdrammatizzare una situazione più comune di quanto si possa pensare, nel peggiore dei casi, si può entrare nel vortice del giudizio e del senso di inadeguatezza. Perché tante volte temiamo il confronto e abbiamo paura di fare brutta figura di fronte a qualcuno ed è per questo, per esempio, che quando il bambino piange di fronte agli altri spesso faremmo qualsiasi cosa pur di farlo smettere all’istante. In realtà è con noi stessi che dobbiamo fare i conti prima di tutto, accettando anche qualche piccola svista e rendendoci conto che ammettere le fatiche dell’essere genitori ci rende tutt’altro che mamme peggiori.
Quando un bambino è molto piccolo non si può parlare di vizi, ma solo di bisogni
I modelli mentali del bambino, il suo stile relazionale e la stima di sé si organizzano a partire dalle prime esperienze affettive con le figure di accudimento, in particolare con la madre. La teoria dell’attaccamento sottolinea come questo legame si costruisca a partire dalla soddisfazione di un bisogno primario di contatto, di vicinanza fisica ed emotiva. Un tempo si sosteneva che si dovesse lasciar piangere i bambini in modo che non prendessero vizi. Effettivamente, se non viene data risposta a un bambino che piange, una volta esaurite le forze, smette da solo e, al ripetersi di questo schema, in generale potrebbe piangere meno. In questo modo però, pur apparendo per certi versi più autonomo, il bambino interiorizzerà che se nessuno risponde ai suoi bisogni forse è perché non merita amore e conforto. Dunque, questa apparente indipendenza può essere al contrario alla base di future insicurezze individuali e relazionali. E’ molto importante dunque accogliere i bisogni dei neonati e rispondere alle loro richieste, fossero anche “solo” di contatto fisico, seguendo il proprio istinto e in modo elastico, senza farsi condizionare troppo dall’opinione altrui, pur nella consapevolezza che alcuni retaggi culturali in qualche modo fanno parte anche di noi.
Il bambino percepisce le nostre emozioni e per calmare lui dobbiamo essere tranquilli noi.
Quando ci relazioniamo con il prossimo, il nostro mondo interno gioca un ruolo fondamentale nel determinare i nostri comportamenti, nel dare lettura di ciò che ci accade intorno, nel suscitare una risposta da parte dell’altro. Per questo è importante avere una certa autoconsapevolezza, che ci aiuti a limitare i fraintendimenti e ad avere una più chiara visione delle situazioni. Con i nostri bambini succede la stessa cosa, forse addirittura in modo amplificato. Per poter calmare un bambino che piange è importante, oltre a soddisfare eventuali bisogni fisiologici, riuscire a contenerlo, fisicamente ed emotivamente, dandogli un luogo sicuro e stabile in cui rifugiarsi. Per fare questo è necessario essere tranquilli e, per quanto possibile, solidi in modo che il piccolo possa lasciarsi andare, trovando un rifugio in grado si contenere tutte le sue fatiche. E’ molto difficile trasmettere sicurezza nel momento in cui siamo agitati, nervosi o insicuri noi per primi: è come se ci chiedessero di stare tranquilli, aggrappati ad un’ancora traballante. Ancora una volta risulta fondamentale avere un occhio rivolto al proprio stato emotivo, che ci permette di comprendere come ci stiamo muovendo. Questo non per forza ci consente di ritrovare immediatamente la nostra stabilità, ma eventualmente può indurci a chiedere aiuto, se necessario. I papà a volte, tornando dal lavoro, riescono più facilmente a calmare i bambini: questa cosa può infastidire parecchio, ma dopo che la mamma è stata da sola col piccolo tutto il giorno è normale che possa avere qualche difficoltà in più a trasmettere quiete e tranquillità. E’ importante saper chiedere aiuto in caso di bisogno, perché in quei momenti, noi possiamo far finta di niente, ma i bambini percepiscono i nostri stati d’animo molto più di quanto possiamo immaginare.
C’è modo e modo di reagire al pianto di un bambino, anche a seconda di ciò che si prova di fronte ad esso. Per qualcuno è un richiamo, per altri è un fastidio o qualcosa di addirittura intollerabile, per altri ancora è la lancetta che misura la propria capacità di essere mamma ai propri occhi o agli occhi degli altri. E’ importante riflettere su questi aspetti, perché diverso è rispondere al pianto del bambino mettendo al centro lui con i suoi bisogni, o al contrario mettendo al centro se stessi e la propria fatica a sopportarlo. La cessazione dunque non dovrebbe essere l’obiettivo ultimo della risposta al pianto di un neonato, ma la conseguenza naturale della soddisfazione di un bisogno espresso.
Spero che le mie 4 piccole certezze vi possano aiutare e far riflettere!
Approfondisci nel Blog: “I primi momenti con il proprio bambino: un vortice di emozioni“